LA RACCOMANDAZIONE: QUANDO È REATO E QUANDO NO
Ben conosciamo la diffusa pratica delle raccomandazioni, soprattutto nel nostro paese, posta alla base di molte realtà lavorative. Ovviamente ciò provoca opposte reazioni: da quelle positive di coloro che ne traggono un vantaggio, alle proteste da parte di quelli che si sentono, al contrario, defraudati da una mancata obiettività di valutazione.
Al di là del peso morale che se ne può dedurre, come al solito in questa rubrica abbiamo l’onere di osservare gli aspetti giuridici delle quotidianità che ci circondano. Prendiamo spunto, nell’avvio di questo approfondimento, da una sentenza della Corte di Cassazione, la n. 32035/2014 che, tra lo stupore della gente comune, sentenziò che “la raccomandazione è legittima, quando non si sostanzia nel comportamento coattivo nei confronti di un pubblico ufficiale e lascia allo stesso la libertà di aderire o meno all’invito”.
Per raccomandazione si intende un’azione di intervento personale, tesa a favorire un soggetto, nell’ambito di una valutazione o di una selezione.
Ovviamente diventa basilare la figura del “raccomandate”, che deve essere personaggio con caratteristiche tali, da esercitare influenza nella procedura di valutazione.
In detta sentenza, la Suprema Corte ha mandato assolti i dirigenti comunali che avevano aderito alla segnalazione a favore di un candidato, proprio per l’assenza di quei comportamenti coattivi nei loro confronti, di cui parla la norma.
Di fatto, l’abuso d’ufficio non si può configurare con il semplice concorso morale di una raccomandazione, in assenza di azioni tali che la possano far divenire fattispecie di reato.
Solo quando il comportamento viene attuato da un pubblico ufficiale nei confronti di altro dipendente pubblico o di un privato, trasforma in abuso di ufficio tale evenienza e diventa reato punito, ai sensi dell’art.323 del Codice Penale, con la reclusione da 6 a 12 anni di carcere.
